Vent’anni fa apparve un manga pieno di “megastrutture” post-umane, in bilico tra il sublime dei romantici e l’orrore lovecraftiano: Era Blame di Tsutomu Nihei, un’opera che precorre molte strade della filosofia contemporanea, dagli iperoggetti di Timothy Morton agli incubi tecnologici di Nick Bostrom.
Poco più di vent’anni fa, arrivava in Italia il primo volume di Blame. Il suo autore, Tsutomu Nihei, era all’epoca mangaka in erba e, se anche nel corso della carriera si è un poco perso per strada, mostrava al suo esordio invenzioni narrative e di idee estetiche che sono state troppo spesso e troppo a lungo trascurate.
Classe 1971, prima di dedicarsi al fumetto Nihei fa l’architetto. Ha zero esperienza editoriale come narratore e si vede, ma un giorno – mi piace pensare che sia andata così – si stufa della strada intrapresa e si dice “sai che c’è? Io adesso faccio i manga” e, nel 1995, vince il Jiro Taniguchi Special Prize con l’episodio pilota proprio di Blame. In una manciata di pagine dai dialoghi sparsi, in cui atmosfera e racconto sono sostenuti in larga parte dalla potenza immaginifica delle architetture impossibili che riempiono le vignette.
Incontriamo un adulto e un bambino, li vediamo attraversare un ponte sospeso su un vuoto che pare non finire mai, c’è un silenzio teso e un senso di oppressione nonostante l’ampiezza dello spazio. I due si imbattono in un viandante che d’improvviso – “così, de botto, senza senso”, commenterebbero gli sceneggiatori di Boris – cerca invano di ucciderli.
“Scommetto che cercava le mie cellule”, commenta il ragazzino al suo accompagnatore, prima che la scena ruoti a inquadrare due imperscrutabili figuri tecno-organici che invece ce la faranno, solo pochi disegni più avanti e con relativo sforzo, a terminare il bambino. Da qui tutto sembra farsi ancora più silente: il protagonista ancora senza nome si aggira trascinandosi dietro il giovane cadavere e le sue cellule, all’apparenza così importanti; attraversa scalinate infinite, si intrufola in grovigli di cavi e tubature. Nessuna coordinata per interpretare quanto abbiamo letto, nessuna spiegazione. Solo la violenza insensata, la percezione di una missione, la vastità artificiale di una città che riconosciamo come tale solo perché che altro potrebbe mai essere?
Oggi, a due decadi di distanza, immersi come siamo in tutt’altro contesto socio-culturale e con una riedizione di grande formato finalmente all’orizzonte, possiamo lasciare da parte il pur legittimo sospetto che l’apparente insensatezza di quell’episodio pilota, che dava il via a una delle più importanti storie di fantascienza del manga contemporaneo, fosse dovuta a leggerezza o incompetenza del suo autore. Ed è possibile e forse doveroso riconoscere che Nihei stava effettivamente dicendo qualcosa, e che non lo stava dicendo per sbaglio.
Fin dalle prime battute, l’impressione è che nella sua inedita veste di mangaka Nihei si senta finalmente libero dai vincoli della fisica e della realizzabilità, almeno concettuale, che la precedente carriera gli imponeva. Ora può invece lasciarsi andare a costruzioni impossibili e voragini infinite a strapiombo su claustrofobici incubi post-industriali, in una visione ambientale ossimorica che pare una versione sotto anabolizzanti dei capricci carcerari di Piranesi.
Sembra una divagazione puramente estetica, svuotata di qualsiasi senso oltre la mirabilia visiva e la vertigine architettonica: se guardassimo alla trama, comunque intendiamo definirla, non troveremmo granché cui attribuire un significato. Il pretesto stesso da cui prende le mosse la serie è oltraggiosamente confuso, esile al limite del ridicolo. Ma anche accettato il McGuffin, la necessità di proteggere questa “rete dei geni terminali” della quale le cellule del bambino sono forse portatrici, ricostruire con coerenza umana un intreccio significativo oltre il valore visivo è un esercizio sterile: è chiaro quindi che il punto dev’essere nell’atmosfera più che nella consequenzialità razionale e nell’intreccio intelligibile.
Leggi l’articolo completo su L’Indiscreto, la rivista culturale online di Galleria Pananti Casa d’Aste.