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Concentrandosi sul trio dei colori primari rosso, giallo e blu, Philip Ball esplora la scienza e le storie dietro i pigmenti, dall’ocra rossa di Lascaux al blu di Yves Klein.

Dopo aver impiegato secoli per capire cosa sono i colori primari, siamo in procinto di abbandonarli. La nozione di primari, infatti, può scatenare furiose discussioni tra gli specialisti del colore. Alcuni fanno notare che la terna che molti di noi hanno imparato a scuola – rosso, giallo e blu – si applica solo alla miscelazione dei pigmenti; mescolando la luce, come nei pixel degli schermi televisivi, servono diversi primari (approssimativamente il rosso, blu, verde). Ma se si stampa con degli inchiostri, si usa un sistema di “primari” ancora diverso: giallo, ciano e magenta. Nello spettro dell’arcobaleno della luce visibile non c’è alcuna gerarchia: non abbiamo alcuna ragione per preferire la luce gialla all’arancione, che ha una lunghezza d’onda leggermente superiore.

Inoltre, anche se i pittori imparano a mescolare i colori – ad esempio il blu e il giallo per ottenere un verde – sanno bene che i risultati possono essere deludenti se paragonati a un pigmento “puro” del colore desiderato: è difficile ottenere un bel viola dal rosso e dal blu. Di conseguenza, gli artisti pensano al colore non tanto come una proprietà astratta, ma in termini della sostanza che lo produce: rosso robbia, blu oltremare, giallo cadmio. Per capire davvero cosa significa il colore per un artista, dobbiamo pensare ai suoi componenti. O, per dirla diversamente, ciò che la tavolozza dell’artista è in grado di produrre dipende dai materiali a sua disposizione e dall’ingegnosità con cui se li è procurati.

Michel E. Chevreul’s Exposé d’un moyen de définir et de nommer les couleurs (1861)

Colore rosso

L’ingegno non è mai mancato. Durante l’ultima era glaciale la vita era triste, brutale e breve, eppure gli uomini trovavano comunque il tempo per dedicarsi all’arte. Strumenti datati a circa centomila anni fa sono stati trovati nella Grotta di Blombos, sulla costa del Sudafrica: macine e martelli per frantumare un pigmento naturale di ocra rossa e conchiglie di abalone, da mescolare con grasso animale e urina per fare una vernice che sarebbe stata usata per decorare corpi, pelli di animali e forse le pareti delle grotte. Le pitture fatte 15-35 millenni fa a Chauvet, Lascaux e Altamira attestano l’abilità artistica che raggiunsero i primi esseri umani usando i colori che avevano a portata di mano: carbone per il nero, gesso e ossa macinate per il bianco, i rossi e gialli terrosi dell’ocra, ovvero una forma minerale di ossido di ferro

Ma i classici pigmenti rossi non si basano su minerali ferrosi, la cui tonalità è più vicina al colore della terra che al rosso di un tramonto o del sangue. Per molti secoli, il rosso della tavolozza proveniva da composti di altri due metalli: piombo e mercurio. Il pigmento conosciuto come “piombo rosso” era creato dapprima corrodendo il piombo con fumi di aceto, poi rendendo la sua superficie bianca, e infine riscaldando quel materiale all’aria. Era usato nell’antica Cina e nell’Egitto, in Grecia e a Roma.

Per l’autore romano Plinio, qualsiasi rosso brillante era chiamato minium – ma nel Medioevo il termine latino era più o meno sinonimo di piombo rosso, che era molto usato nell’illustrazione dei manoscritti. Dal verbo miniare (dipingere in minium) si ottiene il termine “miniatura”: niente a che vedere, quindi, con il latino minimus, “più piccolo”. L’associazione odierna con una scala ridotta deriva semplicemente dai vincoli di adattamento di una miniatura sulla pagina del manoscritto.

Il minio di Plinio era un altro pigmento rosso, chiamato cinabro. Era un minerale naturale: per la precisione il solfuro di mercurio. Nel mondo antico veniva estratto in parte per essere usato come colorante rosso, ma anche perché vi si poteva estrarre il mercurio. Si pensava che il mercurio avesse proprietà quasi miracolose: gli antichi alchimisti cinesi in particolare lo usavano nelle medicine.

Nel Medioevo, gli alchimisti e gli artigiani sapevano come fare il solfuro di mercurio artificialmente combinando il mercurio liquido e lo zolfo giallo (disponibile in forma minerale) riscaldandoli in un recipiente sigillato. Questo processo, descritto nel manuale artigianale De diversis artibus del monaco tedesco Theophilus, può dare un pigmento di qualità maggiore del cinabro naturale. Era una procedura di grande interesse anche per gli alchimisti, dato che gli studiosi arabi dell’ottavo e nono secolo sostenevano che il mercurio e lo zolfo erano gli ingredienti di base di tutti i metalli – per cui combinarli era un metodo per ottenere l’oro. Teofilo non aveva in mente questo obiettivo esoterico; voleva solo una buona vernice rossa.

“Ritratto di Papa Giulio secondo”, Raffaello Sanzio (1511)

Questo “cinabro artificiale” divenne noto con il nome di vermiglio. L’etimologia è curiosa, e mostra la storia contorta dei termini che designano il colore in un’epoca in cui la tonalità di una sostanza era più significativa delle vaghe nozioni pre-scientifiche sulla sua identità chimica. Deriva dal latino vermiculum (“piccolo verme”), poiché un tempo si estraeva un rosso brillante da una specie di insetto schiacciato: non un pigmento ma un colorante traslucido di colore scarlatto, che deriva da una sostanza organica a base di carbonio che producono gli insetti.

Tali coloranti erano anche conosciuti come kermes (dal sanscrito kirmidja: “derivato da un verme”), che è la radice etimologica del cremisi. Poiché gli insetti che le producevano si potevano trovare sugli alberi del Mediterraneo sotto forma di grappoli incrostati di resina e simili a bacche, le tinture potevano anche essere chiamate granum, cioè grano. Da questo deriva il termine ingrained, che implica un panno tinto nel grano: la tintura era tenace e non si lavava facilmente. “‘Tis in grain sir, ‘twill endurance wind or weather”, dice Olivia a Viola di un dipinto nella Dodicesima notte.

I coloranti rossi erano associati alla maestà, all’opulenza, allo status elevato e all’importanza: erano i colori usati per le vesti dei cardinali. I pittori avevano bisogno di rossi raffinati per rendere su tavola e su tela questi dignitari di cui venivano sempre più spesso commissionati i ritratti: Il Papa Giulio II di Raffaello deriva la sua aura di potere anche dalla brillantezza dei suoi rossi.

L’articolo completo su L’Indiscreto, il blog della Galleria Pananti Casa d’Aste.

Immagine in anteprima
Interno con vaso, Francesco Maria Caberlon (1996)
Acrilico su tela, lotto 656
Asta Arte moderna e contemporanea Galleria Pananti Casa d’Aste, 26 marzo 2021


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