Una storia dell’intelligenza artificiale che parte da lontano, perché questi nuovi strumenti ci interrogano anche sul nostro rapporto con la tecnologia
Queste parole sono della direttrice della LSE, la London School of Economics and Political Science. Non una filosofa, non una poetessa, non una terapeuta. È interessante osservare come il trasferimento del lavoro muscolare alle macchine sia stato un passaggio quasi1 indolore, sia in fabbrica sia in casa. Nessuno si lamenta di un montacarichi, di una lavatrice o di non dover ribattere un testo che arriva via email e non via fax.
Quando si tratta del cervello, però: “Ahi, il cervello deve faticare, se no si atrofizza”. Sembriamo convinti che senza fatica non si impari, opinione messa in discussione ormai anche nell’allenamento sportivo, dove il “no pain, no gain” l’ha finora fatta da padrone. E senza fatica cerebrale temiamo di perdere quella che pensiamo essere la nostra caratteristica distintiva: il cogito (ergo sum). Questo avviene anche quando le attività automatizzate sono molto più muscolari che intelligenti: pensiamo, per esempio, al data entry o al ricordare a memoria le infinite clausole di una legge oppure al fare mille volte lo stesso calcolo; o, ancora, al tagliare una foto perché possa essere usata in formati diversi oppure allo scrivere decine di versioni di una call to action senza usare il verbo “scoprire” né l’espressione “compra ora”.
Noi animali umani siamo molto fieri del nostro cervello, della razionalità e del logos, il linguaggio. “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” è l’incipit del Vangelo di San Giovanni. Nei miti induisti la parola, Vāc, precede e origina la creazione dell’universo, espressione del primo suono, Aum – l’Om di chi medita e pratica yoga. In quasi tutte le culture dare i nomi, designare è parte della creazione. Naming is taming, nominare è domare. Il linguaggio è roba nostra, nessun animale parla – a meno che non sia il nostro cane o gatto o capibara – o scrive. Siamo spaventati dal digitale, fatto di dati, e siamo convinti di essere fatti soprattutto di parole, meglio se stampate su carta.
Non dobbiamo dimenticare però, come ricorda il fisico, inventore e imprenditore Federico Faggin, che “i simboli parlati sono dinamici e possono essere descritti come onde sonore. I simboli scritti sono invece statici e sono usati per memorizzare in un libro o nella memoria di un computer i simboli dinamici. I simboli scritti, inoltre, contengono molta meno informazione di quelli orali, perché mancano di aspetti, quali la prosodia, capaci di descrivere molto meglio ciò che si prova. Malgrado ciò, l’esperienza personale è infinitamente più ricca della frase parlata che la descrive”.
Se, tuttavia, stai pensando che verba volant, scripta manent, sappi che, ai tempi in cui Caio Tito disse questa frase, il senso era opposto a quello contemporaneo: in un mondo di analfabeti le parole dette volavano, quelle scritte restavano dov’erano.
Il filosofo Riccardo Manzotti sembra fare eco a Faggin: “L’IA odierna (quella di domani chissà) si ferma alla grammatica del linguaggio. […] La domanda che dovremmo chiederci non è se ChatGPT pensa come noi, ma piuttosto che significa pensare. […] Ritorniamo alla realtà e abbandoniamo i simboli. Torniamo alle cose e lasciamo le parole. Non è vero che le parole o le informazioni siano più importanti della vita e delle cose. ChatGPT riconosce, ma non vede; ascolta, ma non sente; manipola i simboli; ma non pensa. Per pensare bisogna essere reali, ma che cosa è il pensiero? Il pensiero è mondo”.
E il pensiero-mondo è diffuso in tutto il corpo, a partire dal cuore, che è coraggio. Quel cuore considerato ancora roba da poeti, roba da romance, roba da femminucce e da debosciati. Il cuore è un muscolo, eppure nessuna software house sta studiando come replicare la sua forza e la sua potenza, perché le emozioni e i sentimenti sembrano qualcosa da imbrigliare, da domare, da gestire, certo non da replicare per lavorare di più e meglio.
Per questo partiamo da Shafik e dalla speranza implicata nelle sue parole. Forse un giorno, anche vicino, le macchine sostituiranno il cervello come hanno sostituito i muscoli. Ma senza cuore, già oggi, pensare, lavorare e vivere bene è molto difficile e nessuno – che si sappia – sta lavorando a un’intelligenza emotiva artificiale. A un’anima artificiale. E non è un caso, credo, che ChatGPT & Co. siano in grande difficoltà con le negazioni, anche quelle semplicissime.
Qual è il cuore dell’intelligenza? Il dialogo. E da qui partiamo, tornando molto indietro per poi arrivare a oggi.
Continua a leggere l’articolo su L’Indiscreto.