Il film Barbie può essere letto come il racconto della caduta e della morte di una divinità del pantheon buddhista che, finito il suo ciclo vitale, ritorna sotto forma diversa, più consapevole della ruota della rinascita e delle leggi del dharma
L’imperatore Costantino, prima della battaglia di ponte Milvio, sogna una croce e vede nel cielo la scritta: sotto questo segno vincerai. Vincerà davvero la battaglia, il cristianesimo diventa la religione dell’impero e il resto, come si dice, è storia. Ma la croce di Costantino, quel signo del in hoc signo vinces è, secondo Brodskij, anche la croce urbana degli insediamenti romani, rappresentata dai tratti sintetici del cardo e del decumano. Nella prima, accreditatissima, versione di questa storia Costantino si converte al cristianesimo, mentre nell’altra quel sogno porta alla fondazione della seconda Roma, Bisanzio.
Dallo stesso semplice segno – due linee perpendicolari – nascono, o sarebbe meglio dire divergono, letture a posteriori diversissime. Potremmo dire che anche il film Barbie di Greta Gerwig ha la stessa plasticità interpretativa del sogno dell’imperatore.
Barbie, infatti, può essere letto come il racconto della caduta e della morte di una divinità del pantheon buddhista che, finito il suo ciclo vitale, ritorna sotto forma diversa, più consapevole della ruota della rinascita e delle leggi del dharma e, in questo suo percorso, insegna e istruisce gli altri sul concetto di vacuità. Se guardiamo a come alcune storie e alcuni simboli sono stati reinterpretati possiamo considerare questa lettura se non certa per lo meno plausibile. Questa è la linea che diverge dal centro che voglio percorrere per questo film che, ad oggi, è tra i più analizzati e commentati degli ultimi anni.
A più di un mese dall’uscita nelle sale, la natura quasi iconica del film si vede anche dalle critiche che gli sono state mosse, che provengono da schieramenti ideologicamente opposti, accomunati, per un unico momento, solo dal fatto di criticare lo stesso film.
Tra le critiche c’è quella che lo accusa di un’analisi limitata dei temi del femminismo che li ridurrebbe a nient’altro che a una costosa operazione di pinkwashing. Viceversa, il film appare nei discorsi di figure pubbliche come Ted Cruz e Ben Shapiro dove viene accusato di essere woke nell’accezione negativa del termine di cui i conservatori anglosassoni fanno largo uso, a cui si aggiunge l’accusa di essere discriminatorio nei confronti del genere maschile. In ultimo, il film pare vivere in una dimensione opposta e complementare rispetto al film Oppenheimer, con cui avrebbe dovuto condividere la data di uscita negli Stati Uniti, generando una serie di meme che sembrano rispecchiare la natura apollinea dell’uno e dionisiaca dell’altro.
Il film si apre a Barbieland, un mondo di plastica che scorre parallelo rispetto alla realtà in cui viviamo ed è apparentemente immune al cambiamento. Il mondo è abitato esclusivamente dalle Barbie e dai Ken e, a livello scenografico, è volutamente posticcio.
Nella cosmologia buddhista, prevalentemente nella tradizione cinese ed estremo orientale, esistono le cosiddette Terre Pure (清土qingtu), luoghi paradisiaci dove i fiori e le dimore sono plasmati da pietre preziose e dove è possibile rinascere sotto condizioni karmiche favorevoli.
Questi due luoghi immaginari, il primo di plastica e il secondo composto da pietre dure, hanno una serie di punti di contatto: i loro abitanti non presentano caratteri sessuali primari, i corpi appaiono perfetti nella forma – assumono un colorito dorato nelle Terre Pure e un’abbronzatura impeccabile a Barbieland – e, in ultimo, in entrambi i mondi nessun corpo produce deiezioni. Ad esempio, Barbie non mangia mai e in una scena in cui i personaggi vomitano questo è completamente simulato, costringendo gli spettatori ad immaginarlo.
Nel film l’armonia iniziale di Barbieland si incrina quando Barbie, come Siddharta nei suoi incontri con la sofferenza all’esterno del palazzo paterno, comincia a confrontarsi con il concetto di morte. La prima verbalizzazione del termine “morte” diventa il fulcro dell’intera trama.
Se quello della caduta dal mondo ideale – l’incrinatura del paradiso – è un tema quasi universale, la sottile frattura che si vede in Barbie è in linea con le narrazioni buddhiste sulla morte delle divinità.
Dopo che il termine “morte” viene pronunciato, cominciano ad apparire dei segni che fanno presagire un cambiamento: le piante dei piedi di Margot Robbie tornano ad essere piatte, le viene la cellulite e il latte che (finge) di bere diventa inaspettatamente rancido.
L’universo buddhista ha avuto la capacità di integrare nella propria tradizione le divinità del pantheon induista, piegandole, ancora di più, alle leggi della rinascita. Le divinità buddhiste sono estremamente longeve ma non immortali e la loro fine è sempre accompagnata dal manifestarsi di alcuni segni: il loro corpo inizia a sudare, i palazzi dove dimorano si riempiono di polvere e i fiori delle ghirlande che portano al collo appassiscono.
Barbie somiglia a una divinità che è destinata a morire perché anche lei sembra non poter sfuggire alla ruota del mutamento, così come non è immune al mutamento l’icona che la bambola ha rappresentato per decenni.
Questa icona è mutevole perché, se nei primi anni ’60 una bambola che rappresenta una donna adulta che svolge vari lavori era percepita come emancipatrice, con gli anni la questione è diventata più complessa: la mancanza di diversità e l’irrealistico ideale di bellezza fisica rappresentato sono diventati elementi sfavorevoli nella percezione generale del prodotto.
Verso la conclusione del film, in contrasto con l’ovvio lieto fine hollywoodiano, Ken è costretto ad affrontare il rifiuto di Barbie, innescando una doppia crisi. Da un lato, è in conflitto con sé stesso e con la propria identità. L’attributo di Ken nel film è infatti spiaggia e spiaggia non è nemmeno un lavoro, lui non è, ad esempio, Ken Bagnino o Ken Surfista, ma si limita a possedere un attributo palesemente ancillare che lo relega ad essere quasi un elemento scenografico. D’altro canto, invece, Ken si trova in crisi anche perché si identifica nel rapporto romantico che crede di dover avere con Barbie e questo rapporto non sembra potersi concretizzare.
Ken fonda quindi la sua identità su questi due, traballanti, concetti: l’attributo con cui è nato e il desiderio di una relazione romantica.
Nel buddhismo la riflessione sulla natura dei costituenti della realtà, visti attraverso la lente del proprio io, è un aspetto importante della dottrina e di varie pratiche meditative. Gli elementi costitutivi sia fisici che mentali di una persona sono chiamati, dal sanscrito skandha, cioè aggregati, in tutto cinque. Il dolore che proviamo sorge dall’identificare il proprio io con questi aggregati, illudendosi che essi siano scevri dal mutamento. Diverse forme di meditazione spingono a separarsi dagli aggregati, a scinderli fino al punto di non riuscire più a trovare quello che si crede essere il proprio io: il praticante è sfidato a chiedersi se coincide coi pensieri che attraversano la sua mente o con gli organi che lo compongono. Resosi conto che non è nulla di tutto ciò, resta solo un vuoto, che viene in qualche modo circoscritto dalle idee e parole usate per cercare il proprio sé. Questo avvicinamento più o meno consapevole al vuoto rappresenta un’importante forma di meditazione. L’attaccamento e la sofferenza sorgono dall’illusione di credere che questi skandha possano formare un sé separato dalla realtà, che esiste a prescindere da essa. La riflessione su queste componenti risulta essere cruciale per comprendere l’anatta, (in sanscrito anātman, formato da an, “senza” e ātman, “essenza”, “anima”) l’assenza di un sé nell’insegnamento buddista.
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