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Da Horrorstor di G. Hendrix, passando per Fight Club e Ässassinio all’Ikea di Zucca, i negozi di Ikea stanno diventando un luogo letterario. Ma a che tipo di narrazione sono associati?

“Una volta avevamo la pornografia, adesso abbiamo la arredo-mania”. Così dice l’insonne Edward Norton portandosi in bagno il catalogo (sulla copertina c’è scritto Fürni, ma sappiamo perfettamente a quale colosso scandinavo dell’arredamento ci si riferisce). E mentre ci spiega la sua visione del mondo, lo vediamo camminare in uno spazio ovattato e freddo, saturo e bidimensionale, che da vuoto si popola di mobili e oggetti d’arredo, ognuno con un nome, una descrizione e un prezzo. È una sequenza di Fight Club (1999) di David Fincher, film che raccolse diversi premi, tra cui un MTV Movie Award per la miglior scena di combattimento (quella di Edward Norton contro se stesso).

Questa rappresentazione della “casa-catalogo” introduce una delle chiavi di lettura senza le quali Fight Club sarebbe solo una storia di scazzottate: è l’immagine di una promessa mantenuta, della illusoria rassicurazione di aver messo le cose a posto una volta per tutte.

Nel romanzo Fight Club (1996) di Chuck Palahniuck, da cui il film è tratto, Ikea è chiamata col suo nome e spesso chiamata in causa. Il riferimento al catalogo è esplicito nell’elenco dei mobili e complementi d’arredo che il protagonista ha perduto nell’esplosione del suo appartamento.

La consolle a ripiani Klipsik, oh, sì.

Le cappelliere Hemlig. Sì.

Tutta roba che luccicava disseminata nella strada sotto il mio grattacielo.

La mia parure coordinata Mommala. Disegnata da Tomas Harila e disponibile in quanto segue:

Violetto.

Fucsia.

Cobalto.

Ebano.

Antracite.

Bianco latte o vinaccia.

L’elenco completo è un po’ più lungo. Palahniuk ne fa un simbolo della democratica possibilità di acquisire una dignità, un pezzo di mobilio alla volta, del rafforzamento identitario che deriva dal possedere oggetti. Compri mobili. Dici a te stesso, questo è il divano della mia vita. Compri il divano, poi per un paio d’anni sei soddisfatto al pensiero che, dovesse andare tutto storto, almeno hai risolto il problema divano. Poi il giusto servizio di piatti. Poi il letto perfetto. Le tende. Il tappeto. Poi sei intrappolato nel tuo bel nido e le cose che una volta possedevi, ora possiedono te.

Dopo aver perso tutto, il protagonista (nel romanzo non ha nome) chiede aiuto a Tyler Durden (Brad Pitt), un uomo che conosce a malapena e che lo ospita in una casa fatiscente, il contrario dell’ambiente pulito e ordinato conquistato con tanta fatica.

Tyler Durden fonda il primo fight club e poi altri fight club e poi un’organizzazione con lo scopo di liberare il mondo dalla storia. La casa diventa fabbrica di saponette e quartier generale di una serie di “operazioni” progressivamente più violente. Per Tyler infatti non è più possibile cambiare il mondo, ormai troppo corrotto dall’inquinamento e dal consumismo, l’unico modo di cambiarlo è distruggerlo e ricominciare tutto da capo. Al contempo, a livello individuale, il fight club opera una de-programmazione, una liberazione dalla definizione di sé stessi data dall’identificazione nei ruoli sociali.

Giorgio De Chirico, “Mobili nella valle” (1963)

Quando sei al Fight Club, tu non sei i soldi che hai in banca. Non sei il tuo lavoro. Non sei la tua famiglia e non sei quello che dici di essere a te stesso. Nel romanzo (lo trovate negli Oscar Mondadori) c’è anche altro, ma qui ci interessa analizzare la presenza dei “mobili svedesi” come elemento narrativo. Secondo Dario Mangano, nel suo saggio “Ikea e altre semiosfere” (Mimesis, 2019), Ikea è un fenomeno culturale che si annovera tra i miti contemporanei.

Ikea ci offre un modo tutto suo di farci pensare il processo di arredamento stesso, e per farlo utilizza tanto il punto vendita […] quanto un’ampia serie di strumenti di comunicazione. […] L’immagine che se ne ha, alla fine, è quella di un insieme di “cose”, un universo di artefatti di natura molto diversa grazie ai quali si delinea un’esperienza prima di acquisto – quando si è dentro al punto vendita persi tra strani nomi e polpettine svedesi – e poi di vita – quando i mobili raggiungono faticosamente la nostra casa e tocca montarli e posizionarli per poterci finalmente vivere insieme.

Che Ikea implichi una certa fatica fisica, per trasportare e montare i pezzi d’arredo, è da tempo oggetto di vignette ironiche e anche i Simpson hanno tributato un omaggio al celebre foglio delle istruzioni in questa gag del 2016, in cui Homer Simpson trova una soluzione “creativa” alle sue difficoltà di assemblaggio. Questo genere di contaminazioni pare gradito anche in senso inverso: Ikea ha, a sua volta, omaggiato alcune serie televisive riproducendo i famosi salotti di Friends, di Stranger Things e degli stessi Simpson, durante la campagna Real Life Series del 2019. Le ambientazioni sono state ricreate utilizzando mobili Ikea in produzione, dando la possibilità anche agli acquirenti più fanatici di ripetere l’operazione in casa propria. Pare evidente che Ikea sia consapevole di essere un fenomeno culturale e che in questa campagna giochi a stratificare deliberatamente le propria storia con altre storie pop, affermando la propria attualità narrativa e manifestando la propria versatilità.

Leggi l’articolo completo su l’Indiscreto, la rivista culturale di Galleria Pananti Casa d’Aste.

Immagine in evidenza
Giorgio De Chirico, “Mobili nella valle” (1928)



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