Lo smartphone ha senza dubbio cambiato le nostre vite: ma qual è stato il suo effetto nell’arte contemporanea?
Nel dialetto siciliano esiste un termine che indica il guardare intensamente, quasi per incanto, senza distrazione. Il termine in questione è taliàri, di provenienza araba, arrivato sull’Isola attraverso il dialetto catalano, e designerebbe la torre di avvistamento, l’avanguardia. Quindi taliàri è osservare scrupolosamente come una vedetta, senza distogliere lo sguardo, ma allo stesso tempo anche l’architettura estrema che consente il primo avvistamento. Per certi versi l’ubiquo smartphone incarna il taliàri: ci consente di guardare intensamente, illuminati da una luce innaturale e incantevole, trasformandoci nell’avanguardia di ciò che accade intorno e permettendoci di essere aggiornati su ciò che accade lontano.Di contro lo smartphone diventa molto spesso anche la causa del rapimento totalizzante.
Questo sottile monolite, fidato compagno delle nostre vite o “minuscola stanza delle torture portatile” come è stato apostrofato dal filosofo Byung Chul-Han, non poteva esimersi dall’essere oggetto di studio/ispirazione al tramutarsi in vero e proprio strumento di produzione, fruizione e diffusione di contenuti (più o meno) culturali. Il vero potere di molti social network, d’altro canto, si basa sulla copertura smisurata che noi stessi assicuriamo a queste applicazioni, grazie alla simbioticità con i nostri devices.

Da Black Mirror alla selfiologia
Nell’episodio White Bear della nota serie Black Mirror (2013), la protagonista Victoria, si sveglia priva di ricordi e in stato confusionale. Cerca di capire dove si trova e cosa le stia accadendo, la casa in cui si è svegliata e l’intera cittadina fuori dalle mura domestiche sono deserte; gli unici esseri umani visibili sono intenti a riprenderla con i propri smartphone a distanza, senza proferire parola. La situazione precipita con l’arrivo di un gruppo di malintenzionati a volto coperto che si lanciano all’inseguimento della malcapitata ormai nel panico. Attraverso una serie di peripezie e grazie all’aiuto di due coraggiosi “rivoltosi” che vogliono interrompere un misterioso segnale (per l’appunto l’Orso Bianco) che avrebbe trasformato tutti gli abitanti in smombies (zombi al telefono), Victoria riesce, sfinita e terrorizzata, a impossessarsi dell’arma del “capo branco”, ma premuto il grilletto si rende conto che quanto imbracciava non era altro che un giocattolo.
La protagonista scopre a sue spese che la breve ma intensa disavventura è un’orrenda fiction nella quale è stata precipitata e che dovrà scontare per il resto della sua vita, quasi in un terribile contrappasso dantesco. Il crimine da lei perpretato, ossia la ripresa del brutale omicidio della propria figlia commesso insieme al marito suicidatosi in carcere, le si ritorcerà contro ininterrottamente. Il pubblicò è invitato a riprendere liberamente e fruire delle “gesta di inutile resistenza eroica” della smemorata (nel vero senso della parola, visto il lavaggio del cervello a cui viene continuamente sottoposta) Victoria, fino allo svelamento del tragi-comico parco giochi ideato per sollazzare gli spettatori e punire i criminali.
Foucault d’altronde rispetto all’assoggettamento del potere scriveva nel suo capolavoro Sorvegliare e Punire: Questo assoggettamento non è ottenuto coi soli strumenti sia della violenza che dell’ideologia; esso può assai bene essere diretto, fisico, giocare della forza contro la forza, fissarsi su elementi materiali, e tuttavia non essere violento; può essere calcolato, organizzato, indirizzato tecnicamente, può essere sottile, non fare uso né di armi né del terrore, e tuttavia rimanere di ordine fisico.
Divertimento-patimento-assoggettamento arrivano a coincidere in una sorta di crudele gogna pubblica in salsa gioco di ruolo, che porta al cortocircuito definitivo verità-finzione. Ma questa messa in scena perversa non potrebbe avvenire senza il protagonismo morboso di ogni singolo partecipante/smartphone impegnato a riprendere (e condividere) in soggettiva lo svolgimento dell’azione. Il cellulare è allo stesso tempo l’oggetto di tortura, lo scettro del potere e lo strumento di piacere. Riprendere il mostro è l’ideale allontanamento del/dal male, uno schermarsi che indica un ideale e fittizio confine tra la purezza e il crimine.

Il nostro tempo ci ha modellato in una dimensione autistica, portando il testimone a combaciare con il protagonista, con un bicefalismo invertito interiore. All’interno di musei, così come davanti a panorami mozzafiato ed edifici iconici, è ormai inevitabile trovare gruppi di persone che cercano lo scatto migliore in cui immortalarsi con la propria “preda” catturata da quello che in fin dei conti è il vero oggetto del desiderio. Una delle più recenti polemiche è scoppiata proprio all’interno del Museo degli Uffizi di Firenze per alcuni scatti a mò di selfie che ritraevano le due influencer Alex Mucci e Eva Menta. La diffusione sui social degli scatti in cui le due ragazze posavano davanti alla Venere di Botticelli e nei corridoi del museo con camicette trasparenti e fuson attillati ha scatenato un vespaio di critiche e di reazioni tra l’indignazione e l’entusiasmo. Opportuni o meno, gli scatti sono divenuti virali sui social rendendo poco efficace, se non inutile, la richiesta del Museo fiorentino di ritirarli dai profili delle due influencer. In tal senso il nostro smartphone è lo spazio dell’immediato, del non si torna indietro. La spasmodica necessità di appropriarsi e condividere per attirare attenzione è diventato oggi il riflesso condizionato dello stare al mondo.
L’artista Banksy da diversi anni porta avanti il progetto: This Is Not a Photo Opportunity, e stencillando questa indicazione provocatoria nei punti più frequentati da turisti e curiosi nelle grandi città d’arte, generando un contrasto concettuale tra una porzione di spazio fisico perfetto per selfie con scorci iconici e la dipendenza da memoria surrogata. Senza ombra di dubbio l’utilizzo smodato del proprio smartphone e il compulsivo autoscatto con immediata diffusione sono due delle caratteristiche più impattanti della società ipersociale. Ma gli artisti oggi come si interfacciano con questo medium non più recente e con le sue implicazioni inevitabili? Esiste una torsione social della produzione artistica, in chiave social opportunity? Lo smartphone può essere elevato a strumento di produzione artistica?

Continua a leggere l’articolo completo su L’Indiscreto.