Perché vediamo raramente delle persone sorridenti nei dipinti? Nicholas Jeeves esplora la storia del sorriso, dalla Gioconda di Leonardo da Vinci alle fotografie di Alexander Gardner di Abraham Lincoln
Quando qualcuno ci punta una macchina fotografica, sorridiamo. È il riflesso culturale e sociale del nostro tempo, ed esprime le nostre aspettative nei confronti di un ritratto. Ma nella storia del ritratto il sorriso è stato in gran parte disapprovato. In Nicholas Nickleby di Charles Dickens (1838-39), il ritrattista Miss La Creevy riflette così sulla questione:
“Le persone sono così insoddisfatte e irragionevoli che, nove volte su dieci, non è un piacere ritrarle. A volte dicono: “Oh, come mi fate sembrare serio, Miss La Creevy!” e altre volte, “Uh, Miss La Creevy, ma che sogghigno!”… In realtà, ci sono solo due stili di ritratto: quello serio e quello col sorrisetto [smirk]; per i professionisti si usa sempre il serio (tranne che per gli attori, a volte), mentre il sorrisetto va ai privati che non si preoccupano di sembrare intelligenti”.
Una passeggiata in una qualsiasi galleria d’arte rivelerà che per molto tempo il sorriso era decisamente fuori moda. I “sorrisetti” equivoci di Miss La Creevy, tuttavia, diventano via via più frequenti: un sogghigno può offrire agli artisti l’opportunità di ritrarre un’ambiguità che il sorriso vero e proprio non può offrire. Un’espressione facciale così sottile e complessa può trasmettere quasi tutto: interesse, condiscendenza, flirt, malinconia, noia, disagio, gioia o lieve imbarazzo. Questa ambiguità permette all’artista di stimolare un’intensa reazione emotiva in chi osserva il quadro. Un sorriso, invece, è inequivocabile, e rappresenta un momentaneo istante di incoscienza.
Il dibattito su come ritrarre la bocca è sempre stato questo: il conflitto tra il serio e il sogghigno. Il ritratto più famoso del mondo è incentrato proprio su questo scontro. Sono state dedicate milioni di parole alla Gioconda e al suo sorrisetto – più gentilmente noto come “sorriso enigmatico” – tanto che è difficile scrivere di lei senza sentirsi in fondo a una fila molto lunga e rumorosa che arriva fino alla Firenze del sedicesimo secolo. Ma scrivere del sorriso nella ritrattistica senza menzionarla sarebbe ridicolo, perché l’effetto della Gioconda risiede proprio nella sua capacità di stimolare ulteriori domande. Leonardo ci spinge a farlo utilizzando una sapiente combinazione dello sfumato e una profonda comprensione del desiderio umano. È una sorta di magia: quando la si intravede per la prima volta sembra che ci stia lanciando un invito lascivo, tanto è vivo il suo sorriso. Ma quando si guarda di nuovo, e si mette a fuoco lo sfumato, sembra che la donna abbia cambiato idea. È un effetto interattivo e paradossale: il dipinto si compie solo solo nel dialogo tra ritratto e spettatore, ma funziona solo quando non si guarda con attenzione. La Gioconda in un certo senso è progettata per frustrare – e ci riesce benissimo.

Il rumoreggiare attorno al suo sorriso è cominciato nel diciannovesimo secolo, quando la devozione della critica verso l’arte rinascimentale aveva raggiunto il suo culmine. Uno storico in particolare, Jules Michelet, ha vissuto con lei un momento molto personale. Nel VII volume del suo Histoire de France (1855) scrive: “Questa tela mi attira, mi chiama, mi invade. Torno a guardarla mio malgrado, come un uccello col serpente”. Sotto le mentite spoglie della critica romantica, si tratta in realtà di un’espressione del nascente culto della Monna Lisa; nel corso degli anni, infatti, gli storici avrebbero fatto a gara nel dimostrarsi devoti al suo fascino. Il genero di Michelet Alfred Dumesnil, anch’egli critico, si spinse ancora più in là con L’art Italien, quasi per sfidare il suocero: “Il sorriso è pieno di fascino, ma è il fascino insidioso di un’anima malata, che dimostra la sua malattia. Questo sguardo morbido, eppure avido come il mare, ti divora”. In Inghilterra, John Ruskin affermò che si trattava di una semplice “caricatura”, e un giovane di Oxford di nome Walter Pater gli rispose, nel suo Reinassance: “Vi sono incise e plasmate tutti i pensieri e le esperienze del mondo… l’animalismo della Grecia, la brama di Roma, il misticismo del medioevo con le sue ambizioni spirituali e amori immaginari, il ritorno del mondo pagano, i peccati dei Borgia…”.
Nel 1919 l’artista francese Marcel Duchamp crea la sua versione, aggiungendo un baffo al sorriso e intitolandolo L.H.O.O.Q., un gesto dadaista che non fa che esacerbare le cose. (L.H.O.O.Q. si traduce foneticamente come “ha un bel culo”, ma si riferisce anche all’espressione idiomatica di “c’è qualcosa in basso che va a fuoco”). Per Jules Michelet era oggetto di un amore romantico, per Duchamp di una vivace masturbazione.

È una credenza diffusa che se per centinaia di anni le persone non sorridevano nelle immagini era perché i loro denti erano terribili. Eppure non è vero – i brutti denti, infatti, erano così comuni che non erano neanche percepiti come dei difetti. Lord Palmerston, il primo ministro della regina Vittoria, è stato spesso descritto come un uomo dall’aspetto splendido, con un “volto e una figura sorprendentemente belli”, nonostante gli mancassero alcuni denti davanti a causa di incidenti venatori. Solo in età avanzata, quando acquistò una serie di denti falsi, compromise la sua immagine. La sua paura che cadessero mentre parlava lo portava a interrompere i propri discorsi, tanto che in parlamento Benjamin Disraeli lo prendeva spesso in giro.
Tuttavia, sia i pittori che i modelli avevano delle buone ragioni per non incoraggiare il sorriso. Il motivo principale è ovvio quanto trascurato: sorridere a comando è difficile. Nei pochi esempi di sorrisi che abbiamo nei ritratti formali, l’effetto non è particolarmente piacevole. Quando si usa una macchina fotografica e ci viene chiesto di sorridere, ci esibiamo in modo giocoso. Ma se il processo dovesse durare troppo a lungo, i nostri sorrisi si trasformerebbero in smorfie orrende. Ciò che un attimo prima è spontaneo diventa presto intollerabile. Sorridere è come un arrossire – è una reazione, non un’espressione autonoma, e quindi non può essere mantenuta né ritratta facilmente.

Sorridere ha anche molteplici significati culturali e storici, alcuni dei quali in linea con le nostre percezioni moderne, come l’essere un segnale di calore, divertimento, o felicità. Nell’Europa del diciassettesimo secolo era un fatto consolidato che le uniche persone che sorridevano, nella vita e nell’arte, erano i poveri, i lascivi, gli ubriachi, gli innocenti e i comici – su alcuni dei quali torneremo più tardi. Per le classi superiori mostrare i denti era una violazione più o meno formale del galateo. Jean-Baptiste De La Salle, nelle Regole del Decoro e della Civiltà Cristiana del 1703, scrisse:
“Ci sono persone che alzano il labbro superiore così in alto […] che i loro denti diventano quasi completamente visibili. Questo va contro il decoro, che vieta che i denti vengano scoperti, dato che la natura ci ha dato delle labbra per nasconderli.”

Ecco il punto critico: se un pittore avesse convinto il suo modello a sorridere, e avesse scelto di dipingerlo così, avrebbe immediatamente radicalizzato il ritratto, proprio perché era un gesto insolito e indesiderabile. Improvvisamente l’immagine avrebbe come tema solo il sorriso, e questo non è quasi mai quel che desiderava un artista o un soggetto pagante.
Un ritratto non era mai una rappresentazione fedele di una persona, ma una formale e ideale. L’ambizione non era quella di catturare un istante, ma una certezza morale. I politici erano particolarmente sensibili a questo aspetto. Tra i primi esempi potremmo considerare le foto scattate ad Abraham Lincoln. Abbiamo un uomo che era celebre per il suo senso dell’umorismo, tanto che esistono un buon numero di storie su come facesse sbellicare i suoi colleghi. Sebbene ci siano alcune immagini che lo ritraggono in veste decisamente informale, la schiavitù non si abolisce con una battuta, e dunque nella sua immagine più conosciuta, il ritratto di Gettysburg, assume l’espressione più grave possibile. Queste immagini sono così potenti che oggi viene generalmente ricordato così. Mark Twain, un contemporaneo di Lincoln, si esprimeva così sulla questione, in una lettera al Sacramento Daily Union:
“Una fotografia è un documento importantissimo, e non c’è nulla di più dannoso di un sorriso stupido fissato per sempre”.
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