Si parla moltissimo di arte prodotta da robot e intelligenze artificiali, ma sono davvero opere da considerare come prodotti della volontà delle macchine? O semplicemente i robot e le IA non sono altro che strumenti che noi umani usiamo per fare arte?
Supponiamo che l’emergere della coscienza nelle intelligenze artificiali sia possibile; se quelle menti sentiranno il bisogno di creare arte, saremo in grado di capirla? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo considerarne altre due: quando una macchina diventa autore di un’opera d’arte? E come possiamo fare per capire la sua opera?
Si dice che l’empatia sia la forza dietro alla nostra capacità di comprendere l’arte. Basta pensare a cosa succede quando ci si trova di fronte a un’opera. In genere pensiamo che per capirla basta usare la nostra esperienza cosciente e chiederci cosa potrebbe motivarci a realizzare un’opera di quel tipo – in seguito si usa quella prospettiva per cercare di giungere a una spiegazione plausibile. L’interpretazione dell’opera sarà personale e potrebbe differire significativamente dalle ragioni dell’artista, ma se condividiamo sufficienti esperienze e riferimenti culturali, potrebbe essere un’interpretazione plausibile. Per questo motivo possiamo rapportarci in modo diverso a un’opera d’arte dopo aver appreso che si tratta di una contraffazione o di un’imitazione: l’intento dell’artista di ingannare o imitare è molto diverso dal tentativo di esprimere qualcosa di originale. Raccogliere informazioni contestuali prima di saltare a conclusioni sulle azioni altrui – nell’arte, come nella vita – può permetterci di relazionarci meglio alle loro intenzioni.
Ma con l’artista condividiamo qualcosa di molto più importante dei riferimenti culturali: condividiamo anche un corpo simile e, con esso, una prospettiva analoga. La nostra esperienza umana soggettiva deriva, tra le altre cose, dall’essere nati ed essere stati educati all’interno di una società di altri esseri umani, dal combattere l’inevitabilità della morte, dai ricordi che ci sono cari, dalla solitaria curiosità della nostra mente, dall’onnipresenza dei bisogni e delle stranezze del nostro corpo biologico, e dal modo in cui questo corpo detta le scale spaziali e temporali che possiamo cogliere. Ecco, anche se tutte le macchine coscienti avranno delle esperienze, queste saranno in corpia noi saranno del tutto estranei.
Siamo in grado di empatizzare con i personaggi non umani o con le macchine intelligenti presenti nelle narrazioni create dall’uomo soltanto perché sono tutti concepiti da altri esseri umani dall’unica prospettiva a noi accessibile: “come sarebbe per un essere umano comportarsi come x?”
Per comprendere l’arte delle macchine – supponendo innanzitutto di riuscire a riconoscerla – avremmo bisogno di un modo di concepire un’esperienza in prima persona come la concepirebbe una macchina. È qualcosa che non possiamo fare nemmeno per gli esseri che sono molto più vicini a noi. Può benissimo accadere di percepire come arte alcune azioni o alcuni artefatti creati dalle macchine di loro spontanea volontà, ma così facendo, inevitabilmente, antropomorfizzeremmo le intenzioni della macchina. L’arte fatta da una macchina può essere interpretata in un modo che è plausibile solo dal punto di vista di quella macchina, e qualsiasi interpretazione antropomorfizzata sarà implausibile e aliena dal punto di vista della macchina. E come tale, sarà un’interpretazione errata dell’opera.
Ma cosa succede se diamo alla macchina un accesso privilegiato al nostro modo di ragionare, alle peculiarità del nostro apparato percettivo, a una moltitudine di esempi di cultura umana? Questo non consentirebbe alla macchina di fare un’arte che anche un essere umano potrebbe capire?
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Gerhard Richter con una tavola dai suoi 4900 colori (2008) alla Serpentine Gallery di Londra. La distribuzione apparentemente arbitraria dei colori è stata generata utilizzando un programma per computer appositamente sviluppato. Ph. courtesy Shaun Curry/Getty