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Le finestre sono punti di vista sul mondo: includono un panorama per escluderne mille altri. Per questo sono così importanti, e da qui si può partire per capire cosa sarà mai a legare Hitchcock, Calasso e Giovanni dalle Bande Nere

Esibizionisti o voyeur. È così che Celine divideva gli esseri umani. Ed è piuttosto semplice intuire a quale dei due schieramenti appartenesse Alfred Hitchcock. Da Rebecca e il Sospetto a Psycho e Vertigo, i suoi film hanno sempre come nodo pulsante uno sguardo carico di tensione, aspettativa, desiderio che si incolla famelico e ansioso su un soggetto esterno al quale attribuisce una potente riserva di senso, e del quale beve informazioni come un vampiro, al quale strappa segreti grandi e piccoli, momenti di solitudine e intimità, succhiandone la vita e sovrainterpretandoli, per amore, paura, o spesso le due cose assieme. Una pressione che non si appunta solo sui personaggi ma si incolla feticisticamente perfino sugli oggetti, come ha sottolineato Guido Vitiello nel suo Una vista al Bates Motel.

Un simile leitmotiv non si limita a battere costante e discreto come il sol diesi e la bemolle de La Goccia di Chopin, ma talvolta esplode in primo piano, come ne La Finestra sul cortile, che di una simile tensione voyeuristica fa il proprio elemento fondamentale ed esplicito, una riflessione programmatica. Come notarono Chabrol e Rohmer se c’è un film di Hitchcock per il quale il termine metafisica può essere citato senza timore, ebbene questo è proprio “La finestra sul cortile”. La storia del report ingessato e bloccato a casa, che osserva il cortile interno del proprio vicinato e le vite che scorrono alle sue varie finestre e, coadiuvato dalla donna che lo ama e vorrebbe convincerlo a sposarla e uno scampolo di coro greco rappresentato dalla proverbiale saggezza dell’infermiera assicurativa, scopre un uxoricida e riesce infine a farlo arrestare dopo averlo abbagliato coi flash e finire scaraventato nel cortile stesso, è notoriamente ispirata a una detective story di Cornel Woolrich.

“Non conoscevo i loro nomi. Non avevo mai sentito le loro voci. Non li conoscevo nemmeno di vista, in senso stretto, perché i loro volti erano troppo piccoli per riempirsi di tratti identificabili a quella distanza. Eppure avrei potuto costruire un calendario dei loro andirivieni, delle loro abitudini e attività quotidiane. Erano gli abitanti delle finestre intorno a me”.

Come si evince anche solo dall’incipit, la fonte narrativa della sceneggiatura è totalmente imperniata sulla soggettiva di quell’io narrante, su quanto esso può cogliere dalle brevi sequenze incorniciate dalle finestre, quanto riesce a intuire dagli intervalli invisibili che si svolgono negli spazi tra esse o altrove, più dentro le abitazioni, laddove invece lo sguardo diretto non può spingersi. Tutto ciò, sommato all’immobilità forzata da un’infezione (che nel film si farà ingessatura) e che già conteneva una possibile allusione all’impotenza erotica rimarcata dal cannocchiale esteso della macchina fotografica, viene amplificato dalle scelte di sceneggiatura e registiche di Hitchcock, fino a trasformare un noir metropolitano degli anni ’40 in un esperimento contemplativo.

Quello che si vede dall’altra parte della strada è un gruppo di piccole storie che, come dici, rispecchiano un piccolo universo, confiderà a Truffaut, dove la dimensione visiva ha una preminenza assoluta su quella uditiva (Il dialogo dovrebbe essere semplicemente un suono tra altri suoni, solamente qualcosa che esce dalla bocca di persone i cui occhi raccontano la storia in termini visivi) per poi ribadire nettamente in un’altra occasione che “La finestra sul cortile” è totalmente un processo mentale, condotto attraverso mezzi visivi.

È proprio tale ammissione ad aver interessato Roberto Calasso, che ha provato ad auscultare un simile processo mentale:

“La prima inquadratura ci offre una tenda semitrasparente e avvolgibile di bambù che si solleva davanti a una finestra, poi un’altra, poi un’altra ancora. È come se la cortina di opacità che normalmente avvolge la mente e la rende inconsapevole di se stessa a poco a poco si dissolvesse. Che cosa appare, allora? Non il mondo, ma il cortile: predisposto come un edificio mnemotecnico, dove la parete di mattoni sbiaditi fa da supporto ai loci, che sono le varie finestre. Qui si manifesta la fondamentale invenzione visiva del film: le immagini che vediamo all’interno della cornice delle singole finestre (la ballerina che si esercita, i freschi sposi che entrano nel loro appartamento, il musicista infelice al pianoforte, Cuore Solitario che si prepara a ricevere un maschio invisibile, il commesso viaggiatore Lars Thorwald che torna dalla moglie malata e astiosa) sono a un altro livello rispetto a quello che vediamo nel cortile o nella stanza del protagonista. Quelle immagini rettangolari non sono reali, sono iperreali. Hanno la qualità allucinatoria e smaltata delle decalcomanie.”

Continua a leggere l’articolo su L’Indiscreto.



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