Per il filosofo Dewey l’opera d’arte non ha nessun senso di esistere come categoria peculiare. L’esperienza estetica può scaturire da qualsiasi attività significativa e l’arte è un’esperienza che si vive dal lato di chi la esperisce, non di chi la crea
Arte come esperienza
‹‹Per una delle perversità ironiche che spesso affliggono il corso delle cose›› scrive John Dewey, filosofo statunitense di inizio ‘900, in Arte come Esperienza ‹‹l’esistenza delle opere d’arte da cui dipende la formazione di una teoria estetica è diventata un ostacolo per la teoria che le concerne››. Affermazione di una certa perversità ironica, come riconosce lo stesso filosofo: che l’esistenza delle opere d’arte renda complicato – se non impossibile – parlare di teoria dell’arte sembra anzi un controsenso. Di cosa dovrebbero occuparsi, infatti, i critici, se non delle opere d’arte? Che cos’altro rimane dell’arte se si eliminano le opere d’arte? Per Dewey, invece, il problema è esattamente l’opposto. L’”oggetto” che noi chiamiamo opera, argomenta il filosofo, è un’invenzione recente, che va di pari passo con la creazione del museo, ma prima che queste istituzioni venissero al mondo, l’arte, più che la materialità delle cose, riguardava pratiche, rituali, eventi… in poche parole, aspetti della vita. L’arte religiosa è un ottimo esempio di questo fenomeno. Prendiamo i templi, che sono spesso pieni di opere dal significato religioso. Queste opere non soddisfano una funzione puramente estetica; o meglio, il piacere estetico che offrono serve l’esperienza religiosa. La amplifica. Nel tempio, dunque, arte e religione non sono separate ma collegate. Ancor di più, se si pensa all’arte preistorica: le statue, le pitture rupestri, non sono oggetti d’arte nel senso moderno del termine.
Al contrario, queste creazioni sono profondamente immerse nella vita degli individui nel tempo: lungi dall’essere pensate come bersagli dello sguardo puramente contemplativo, erano piuttosto attività, strumenti utili alla vita. La scena di caccia sulla parete rocciosa era parte attiva dell’esperienza della caccia, svolgeva una funzione propiziatoria, anticipatrice, ma anche per così dire, estetica: come in alcune teorie sui sogni – o sul teatro – inscenava in maniera fittizia ciò che presto stava per succedere, preparando gli esseri umani primitivi al futuro. Così l’esperienza estetica aveva anche – e anzi, soprattutto – un ruolo strumentale: era parte della vita quotidiana dell’individuo. Se pensiamo invece ad un’opera più recente – una qualsiasi, dal ritratto al ready-made – esposta in un museo, è facile renderci conto che non esiste nulla di più lontano dalla vita quotidiana. L’arte raramente, se non mai, fa parte dell’esperienza giornaliera delle persone. Piuttosto è isolata, individuata, posta all’interno del contesto del museo. Il ready-made è infatti proprio l’apice di questo fenomeno: un oggetto della vita di tutti i giorni, che non ha nessuna pretesa estetica, diventa ipso facto arte soltanto perché esposto in un museo.
Non dobbiamo pensare ai musei, infatti, come istituzioni neutre. In senso politico, questo è evidente. Ci sono (e ci sono state) innumerevoli discussioni sul colonialismo culturale portato avanti da alcune istituzioni museali: il Museo Egizio di Torino, ad esempio, è forse il più importante museo egittologico al mondo. Il fatto che si trovi in Italia solleva non poche questioni politiche: da dove derivano e come sono state ottenute le opere lì esposte? È giusto che sia l’Italia a trarne guadagno economico e non l’Egitto? Privando una nazione di importanti artefatti culturali non la si priva anche di una parte della sua identità storica? Più in generale, se si vede la nascita di questi spazi, si nota che i musei sono stati originariamente creati per ospitare il bottino della colonizzazione.
Nel XVI secolo, le “wunderkammer” europee contenevano i tesori dell’età dell’esplorazione. Queste “stanze delle meraviglie” erano intrinsecamente occidentali e coloniali in quanto legate alla “scoperta” di “nuovi mondi” da parte dell’impero occidentale: le case e i musei che esponevano questi oggetti fungevano da spazio per i colonizzatori, generalmente ricchi, per rivendicare i manufatti come prova del loro dominio su altre culture e tale patrimonio come proprio. Ciò ha avuto forti implicazioni per l’identità nazionale e per gli sforzi di costruire una legittimità politica. Nelle parole dello storico dell’arte James Cuno, i musei funzionano così come strumenti di propaganda: sono ‹‹[U]sati per raccontare la storia del passato di una nazione e confermare la sua importanza attuale››.
Al di là del problema politico, però, che pure è importante, l’aspetto di mancata neutralità del museo su cui voglio concentrarmi è quello psicologico – cognitivo. Come tutte le istituzioni, i musei sono anche istituzioni cognitive. Dal momento che siamo al loro interno, il modo in cui facciamo esperienza del mondo esterno è profondamente influenzato dall’aura di cultura in cui ci troviamo. Come fa notare la filosofa Natalie Wynn, in Arte Contrapoints, addirittura il desiderio stesso, nel museo, si comporta diversamente. Se infatti normalmente, nella vita quotidiana, il desiderio è materiale – siamo mossi dalla brama di ciò che vogliamo: cibo perché abbiamo fame, sesso perché è piacevole, gloria perché siamo vanesi; desiderio e godimento vanno di pari passo – nel museo il desiderio è completamente scorporato: l’art for art’s sake. Gli oggetti nei musei sono decontestualizzati dal loro ambiente quotidiano: sono esposti su piedistalli, con luci che ne esaltano le proprietà e li fanno apparire quasi-magici, e, il dettaglio principale, tali oggetti non possono essere acquistati. O meglio, all’interno del contesto che viene chiamato feticismo delle merci, il gusto (e quindi l’esperienza estetica) è in stretta relazione con il desiderio materiale. È il motivo per cui compriamo cose che ci piacciono, il motivo per cui amiamo curare la nostra estetica con abiti o prodotti di lusso, arrediamo le nostre case con mobili di design e così via.
Nel museo invece, proprio perché non si può comprare nulla, abbiamo la sensazione che il piacere estetico che proviamo davanti un’opera sia puro, ovvero che si stia semplicemente godendo della bellezza di alcuni oggetti particolari senza alcun contesto (sia esso economico, politico o altro). Ma, naturalmente, è un’illusione: perché il museo è il contesto, ed è proprio il contesto che ci sta dicendo che le cose che guardiamo sono arte. In questo senso, la musealizzazione dell’arte ha avuto un ruolo normativo nel recintare l’esperienza estetica al di fuori della vita quotidiana, per rinchiuderla in ambienti specifici e protetti: delle vere e proprie enclosures estetiche.
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Immagine in evidenza: Joan Brown, Year of the tiger