Non è facile capire come mai ci piace ciò che piace. Si può partire da cosa, per noi, ha “senso”. Ma c’è di più: c’entrano le indeterminazioni e la cosiddetta mimesi. La parabola di Alessio Montagner
Secondo lo psicologo Jordan Peterson una delle domande più profonde che una persona può farsi è: perché mi interessa proprio ciò che mi interessa, e non altro? Perché ora sto scrivendo questo articolo, quando so che dovrei fare altro? Nessuno conosce la risposta. Studiando all’università, il mio unico interesse era questo: cercare di capire perché un libro, un romanzo nello specifico, mi può risultare bello. Molti degli esami che dovevo affrontare non sembravano affatto aiutarmi, e per quanto mi sforzassi di farmeli risultare interessanti, non ci sono riuscito. E questo era, inizialmente, anche il mio atteggiamento verso il terrificante esame di linguistica, quello sul quale gli studenti raccontavano le leggende più nere, tenuto dalla prof. Patrizia Solinas.
Ero così spaventato che mi sono costretto a leggere due volte di fila il manuale Berruto-Cerruti, ricavandoci cento pagine di appunti che ho poi esposto a voce ricavandoci più di quattro ore di registrazione, che ho scaricato sul cellulare per poterle ascoltare 24/7, anche durante il sonno, nella speranza che sarebbe rimasto qualcosa. E insomma, mi sono così talmente immerso nella linguistica che, di colpo, ho avuto un’illuminazione: ho capito che la linguistica era proprio ciò di cui avevo bisogno, era la chiave per riuscire a capire perché un’opera d’arte mi risulta bella. L’impressione è stata così forte che di lì a poco ho abbandonato del tutto ogni mio interesse letterario, per dedicarmi invece alla filosofia analitica.
L’illuminazione che ho avuto posso esprimerla in una singola frase: il modo nel quale un’opera d’arte mi risulta bella è lo stesso nel quale una parola mi risulta dotata di senso.
Il legame esistente tra linguistica e critica d’arte, certo, non è cosa nuova. In una libreria gestita da un attempato Elvis Presley (chi gira per Venezia lo conoscerà) avevo trovato, per esempio, Linguistica e Critica Letteraria di Jens Ihwe. Ihwe ammette chiaramente di cercare di fondare «una futura scienza della letteratura, intesa come scienza moderna (cioè empirica e teoretica)»: una pulsione, questa, nella quale mi trovavo pienamente, essendo da sempre un estimatore delle scienze naturali, e sentendomi sempre più oppresso dalla mancanza di precisione e rigore scientifico in tutta la critica d’arte e letteraria. Penso che proprio questa insoddisfazione per l’imprecisione delle scienze umane spinga verso un approccio linguistico più duro: l’ho visto coi miei professori, l’ho visto coi filosofi del linguaggio a partire da Wittgenstein, e anche lo stesso Ihwe scrive che «la linguistica moderna… può e deve essere chiamata in causa» nel tentativo di creare questa sua “scienza della letteratura”.
Il libro di Ihwe, però, non era stato proprio come lo immaginavo. Le cose più importanti che credo di aver capito mi sono venute, piuttosto, da quel particolare approccio chiamato neuroestetica, da libri come Verso una Neuroestetica della Letteratura di Massimo Salgaro e Retorica e Scienze Neurocognitive di Stefano Calabrese. In fondo, la linguistica stessa è, nella sua essenza, una scienza cognitiva; e tutta la filosofia analitica, poi, si basa sull’assunto che l’unico modo per comprendere la natura della mente sia tramite un’analisi formale del linguaggio, tanto che senza linguaggio non si può neppure parlare propriamente di pensiero. Posto questo legame forte tra linguaggio e mente, cerchiamo di capire cosa ci può dire questo sulla natura e sul valore dell’arte.
Arte come comunicazione, conversazione, linguaggio
Iniziamo con un’affermazione comune: l’arte è comunicazione. Cosa significa? Potremmo provare ad analizzare la frase così: le opere d’arte sono oggetti creati con una volontà comunicativa affinché un fruitore li interpreti. La presenza di una volontà comunicativa è essenziale per distinguere le opere d’arte da oggetti di diverso tipo. Perché i pensieri che mi suscita un tramonto non lo rendono arte, mentre i pensieri che mi suscita il quadro di un tramonto rendono il quadro arte? Perché il tramonto in sé non nasconde una volontà comunicativa, il quadro sì, è fatto dall’artista affinché chi lo guarda pensi a certe cose. Perché una casa popolare non è arte, ma la foto di una casa può esserlo? Perché la casa, pur potendo comunicare qualcosa, non è presumibilmente realizzata con questo scopo, mentre si ipotizza che il fotografo che espone qualcosa abbia anche una volontà comunicativa.
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