Un’opera di Andy Warhol racconta una delle tragedie che hanno cambiato l’Italia, ma a guardare bene ha anche anticipato i tempi su un pericolo che corre il giornalismo. Lo racconta Enrico Pitzianti nel suo primo libro.
Provate a immaginare un rumore metallico, caotico e inaspettato, un rumore così forte da risultare assordante, che non sembra venire da un punto preciso, ma da ovunque intorno a voi. Un rumore che di colpo si impone su migliaia di chilometri quadrati, paesi, città, strade e campi. Un rumore diventato così importante, per il mondo venuto dopo di esso, che, volendo, lo si può risentire ancora oggi, su internet, dove se ne trovano le registrazioni. Era il rumore di un terremoto, uno dei più devastanti dell’epoca contemporanea. Uno spartiacque per la storia d’Italia e per la nostra psicologia collettiva.
La sera del 23 novembre 1980, per novanta lunghissimi secondi, una scossa incredibilmente potente causava crolli, smottamenti e incidenti, e di conseguenza la morte di circa tremila persone. Succedeva in Irpinia, in Campania, ma veniva avvertita in quasi tutta Italia. Gli sfollati sono stati, si stima, quasi trecentomila. L’ultima a tornare a casa, Lucia Senatore, oggi novantenne, ne aveva cinquanta quando si ritrovò a perdere la sua casa e andare, quindi, a vivere in un container. Ci è rimasta per quarant’anni, fino al 2019. L’epicentro di quel terremoto era a Castelnuovo di Conza, ma gli effetti distruttivi arrivarono fino alle città più grandi, come Napoli, dove ci furono diversi crolli, e a Poggioreale, dove un palazzo si accartocciò su se stesso fece ben 52 vittime.

Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica, arrivò sul posto e si rese conto del disastro. Bisognava fare presto, e Roberto Ciuni, sul quotidiano più importante della Campania, «Il Mattino di Napoli», scelse di titolare proprio così, a caratteri cubitali: «FATE PRESTO». Quel titolo, tutto in stampatello, era seguito da una frase che ancora oggi mette i brividi: «Per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla». Il quotidiano partenopeo, dicendo «Fate presto», non si stava riferendo a ritardi nei soccorsi o redarguendo chi l’emergenza la stava gestendo (d’altronde erano passati solo tre giorni dopo la scossa di quel 23 di novembre). Il senso di quel titolo era che bisognava assolutamente fare qualcosa, e andava fatta subito.
La sera del terremoto uno dei galleristi più importanti di Napoli – e oggi, col senno del poi, sarebbe giusto dire d’Italia – era andato a un concerto in centro. Uscì, come racconta in un documentario del 1993, prima del resto del pubblico, forse era annoiato, chissà, e pochi minuti dopo si vide raggiunto da una folla in preda al terrore. Pensò “ma sono tutti impazziti?”, ma presto si rese conto che scappavano dalla terra che tremava e risuonava in un boato terribile. Poco dopo capì anche che quell’evento avrebbe cambiato la vita di molti campani, compresa la sua.
Quel gallerista era Lucio Amelio, ed è morto l’anno dopo aver girato il documentario in cui raccontava la paura e lo sgomento di quei momenti. Nel 1994. La mattina dopo il terremoto, il 24 novembre 1980, tutta Italia si svegliò con le immagini e le notizie che descrivevano la morte e la distruzione dovute alla scossa di magnitudo 6,9 che aveva colpito l’Irpinia. Anche Amelio capì le dimensioni del dramma e, come dichiarò lui stesso, «non ebbi più tempo per non pensare al terremoto». «Io che avevo sempre lottato contro il predominio del mercato americano decisi di fare un armistizio», disse Amelio, raccontando di quando decise di coinvolgere artisti celebri per narrare il sisma con le loro opere. E tra di loro ci doveva essere necessariamente anche lui, Andy Warhol.
Lucio Amelio raggiunse la Factory a New York e portò con sé molte copie di giornali di quei giorni, materiale che uno come Warhol avrebbe sicuramente voluto leggere e osservare per il suo lavoro: l’artista rimase colpito proprio da quel titolo de «Il Mattino», quel «FATE PRESTO!» Lo stampatello e il punto esclamativo parlavano un linguaggio che andava oltre la lingua italiana, l’urgenza espressa in quel modo bucava il foglio, si faceva tridimensionale e trapassava i limiti della mutua comprensibilità raggiungendo in un attimo gli occhi e il cuore del lettore. Quel titolo era un testo scritto, ma aveva la potenza di un’immagine. Andy riprodusse la prima pagina del quotidiano napoletano, e la rese una sua opera.
Leggi l’articolo completo su L’Indiscreto, il Blog ufficiale di Galleria Pananti Casa d’Aste.
Immagine in evidenza
Andy Warhol con una delle serigrafie che comporranno “FATE PRESTO!”