Tutti i graphic designer dovrebbero saper programmare? E qual è il rapporto tra design, creatività e coding?
La programmazione gioca uno strano ruolo nel graphic design. Se da un lato le si riconosce la capacità di riconfigurare in profondità il nostro ambiente artificiale, dall’altro la sua adozione negli studi e nelle scuole di settore risulta quantomeno minoritaria. Inoltre gli stessi designer spesso non sono in grado di riconoscere le ‘virtù computazionali’ di un progetto, che si tratti di un workflow elegante o di un processo generativo particolarmente ingegnoso.
A fronte dell’esperienza accumulata in cinque anni d’insegnamento in Italia e nei Paesi Bassi, posso dire di essermi imbattuto in una cerchia ristretta di studenti appassionati di coding. Gli altri invece preferiscono addirittura esternalizzare la componente di programmazione dei loro progetti. Quello che spesso causa frustrazione e un disinteresse generalizzato è il fatto che il coding viene inquadrato unicamente attraverso il filtro dell’esecuzione di un’idea creativa. A ciò si aggiungono purtroppo alcuni preconcetti di genere per cui le donne si sentono respinte – e spesso lo sono – dagli ambienti STEM. A riprova di ciò, la maggior parte degli studenti che fin da subito si dichiarano poco inclini alla programmazione sono di sesso femminile.
Detto ciò, ho anche avuto il piacere di confrontarmi con molti progetti complessi a livello di coding realizzati da designer donne. A renderli particolari è il fatto che tali progetti non erano guidati dalla hybris prometeica che spesso la programmazione ispira, o da un orgoglioso sfoggio della potenza di questo strumento. Al contrario, si concentravano sugli aspetti socio-culturali del coding in quanto pratica che accomuna gli esseri umani con le macchine e tramite le macchine, un tema che approfondirò a breve.
La programmazione dovrebbe far parte della prassi di un designer? Da quando ho memoria questa domanda genera continuamente accese discussioni. In parole povere, il problema è questo: il designer deve saper programmare? Per alcuni celebri progettisti la risposta è senz’altro positiva. Uno di loro è John Maeda. La sua posizione sull’argomento non sorprende visto che stiamo parlando dell’autore di Design by Numbers, il linguaggio che ha anticipato il diffusissimo Processing. Maeda può essere considerato a tutti gli effetti un pioniere del design computazionale. Di che si tratta? Il design computazionale, secondo Maeda, fa uso del complesso apparato dei computer, coinvolgendo qualsiasi tipo di sensore o attuatore. Dal suo punto di vista, i designer computazionali non sostituiranno i designer dall’approccio più classico, ma semplicemente si cimenteranno in sfide differenti.
Esiste inoltre una posizione più terrena: sicuramente il coding rappresenta una competenza utile in quanto facilita il dialogo con i programmatori veri e propri, ma in pratica la vera palestra dei grafici, così come quella dei designer dell’interfaccia e dell’esperienza, è il wireframe, il mockup, il prototipo cliccabile prodotto in Illustrator o (brividi) Photoshop; e più recentemente in Figma, Sketch o Invision, con incursioni occasionali nel territorio CSS e SASS.
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