Appunti sul valore di un’opera d’arte (ovvero come il possesso di un’opera sia una forma funzionante di cannibalismo)
Se nessuno si stupisce che anche la merda (d’artista) possa valere più di centomila euro, è perché il linguaggio dell’arte è così intrecciato agli svariati ambiti della società umana che spesso è impossibile comprenderlo senza sbrogliare l’intera matassa. Quale sia e soprattutto come si stabilisca il valore di un’opera d’arte però, dal punto di vista sia critico che economico, resta una domanda lecita, che chiunque sia entrato in un museo o in una galleria si è posto almeno una volta. Affidarsi a criteri quali la sensibilità o il gusto dei singoli è una soluzione frequente, ma equivale a sfuggire la domanda appellandosi all’eccessiva complessità delle variabili che portano a un giudizio condiviso – insomma, è poco più di un diplomatico «Boh». D’altra parte chi si incaponisce sulla questione, propone sì dei risultati interessanti, ma ben lontani dall’essere risolutivi.
In omaggio a Karl Rosenkranz e a tutti gli hegeliani che tentavano di classificare qualunque cosa, proponiamo una via di mezzo tra i due approcci (istintivo e critico), ovvero un tentativo quasi naïf di capire cosa ci spinge a voler possedere delle opere d’arte a partire dal significato dell’espressione “valore di un’opera d’arte”. Prima di parlare d’arte, dunque, sarà bene capire cosa si intende per “valore”. Il principio per cui nella vita quotidiana si dà valore a qualcosa sembra vincolato per lo più a due fattori: l’utilità e la rarità.
L’oro, ad esempio, è un minerale sia versatile che raro, dunque vale molto. L’acqua è milioni di volte più utile, ma altrettanto comune, per cui il suo valore è minore. È facile immaginare che il valore muti col variare dei due parametri: adesso preferireste un bicchiere d’oro a uno d’acqua, ma non sarebbe così se vi avessero abbandonato in un deserto, per via del cambiamento del parametro rarità.
Lasciamo adesso i beni naturali per tornare all’opera d’arte. Di per certo questa è rara, in quanto frutto dell’unione di circostanze e persone non ripetibili, ma la rarità del Giudizio Universale di Michelangelo è, a rigor di logica, a pari merito con quella dello scarabocchio che ho appena tracciato sul foglio; considerata l’evidente differenza di valore tra le due opere, dovremo dunque affidarci per lo più al secondo parametro, l’utilità. A differenza di altri beni dall’utilità ben definita però, come l’acqua, l’oro, una forchetta o un aereo, l’utilità di un’opera d’arte è assai sfuggente.
Escludendo l’uso quotidiano – nessuno orina nella Fontana di Duchamp – all’opera d’arte rimane, forse, la funzione di messaggio in senso ampio, sia che si parli di un quadro, di una statua, un film o un romanzo. Ogni opera, infatti, esprime un messaggio, che, una volta recepito, ha un determinato effetto. A differenza di messaggi semplici come un foglietto con scritto “ho lasciato le chiavi vicino alla fruttiera”, il Giudizio universale di Michelangelo veicola una moltitudine di sensi e significati difficilmente discernibili, tanto che alla loro comprensione e contestualizzazione lavorano discipline quali la storia e la critica d’arte.
Stabilire l’effetto sul fruitore di questa fitta matassa di informazioni è, se possibile, ancora più complesso; si può però azzardare l’ipotesi che più è alto il valore informativo più il fruitore sarà “catturato” dall’opera. Ecco che ritorna il vecchio parametro: il valore di un’opera è legato alla sua utilità che, se l’opera è un messaggio, risiede nel valore informativo della suddetta.
Le cose si complicano e il nostro proposito di semplicità potrebbe incagliarsi contro lo scoglio della verità, perché il valore informativo presuppone che le informazioni veicolate siano vere. Un concetto temibile, su cui è facile scaricare il valore di un’opera (come di qualunque messaggio), ma che è ancor più difficile da definire. Aggiriamo dunque il problema, senza pronunciarci sulla “verità’ della verità”, ma limitandoci a sostituirla con la sua forza persuasiva.
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