Un’indagine dettagliata su come gli spazi artistici, dallo studiolo all’atelier, hanno riflesso e plasmato la storia dell’arte.
Prima di capire che non ero abbastanza brava, da giovane, volevo fare la pittrice. Chi viveva con me in quel periodo si ricorda con piacere che spesso, mentre parlavamo, mi mettevo a disegnare parte del mondo che mi stava attorno: un albero, un bicchiere di vino, un palazzo, un viso. Spesso lo facevo con una semplice matita, a volte con un set arrabattato di penne a sfera e a inchiostro, altre invece con una scatoletta rotta di acquerelli di cui, ogni volta, dovevo recuperare le cialde sparpagliate nella borsa.
Sebbene avere un amico che vuole fare l’artista possa – sulla carta – sembrare molto romantico, chi lo ha davvero sa che, in verità, viverci insieme non è facile. Soprattutto perché, oltre a parlare sempre della sua opera (o dell’opera che non ha ancora fatto), ogni superficie della casa sarà perennemente ricoperta dal suo ‘lavoro’ e, almeno fino a quando non riuscirà a permettersi uno studio, non riavrai più il tuo tavolo del salotto.
Sebbene oggi questo tema sia in parte superato, grazie all’esistenza delle più disparate residenze d’artista e a co-working per creativi di ogni genere, il bisogno di uno spazio intimo nel quale dare liberare la propria immaginazione è stato oggetto di una lunga narrazione sotterranea, che solo in parte si rifà al mondo della storia dell’arte. Lo spiega bene il libro di James Hall, Lo studio d’artista. Una storia culturale, pubblicato in Italia quest’anno da Einaudi. Secondo il critico la storia dello spazio nel quale pittori, scultori e scrittori agiscono appare come il frutto di uno strano mélange, insieme semantico e letterario, nel quale si definisce la vera storia della creazione occidentale: una storia in continuo movimento dove ambienti interiori ed esteriori si legano in maniera indissolubile. Per l’autore, difatti, “il luogo di lavoro dell’artista è un’entità permeabile e mutevole che ha una relazione simbiotica con le botteghe degli artigiani, le celle dei monaci, gli studi degli eruditi e altri spazi interni ed esterni” come, per esempio, le mura dei palazzi, giardini e paesaggi naturali, sino alle caverne nelle quali nascono le prime prove grafiche a opera dell’uomo.
L’origine dell’espressione studio, che risale al XV secolo, rimanda a un altro termine, studiolo, usato ancora oggi per definire una piccola stanza privata adibita allo studio e alla ricerca personale. In epoca rinascimentale poteva però rappresentare due cose diverse: in principio uno scrigno misterioso, intarsiato, pieno di cassetti contenenti oggetti preziosi e bizzarri, spesso dotato di un apposito ripiano per la scrittura sul quale intingere la propria penna nel calamaio e dare libero sfogo alla fantasia e, solo in un secondo momento, una camera intima volta alla contemplazione e all’esposizione dei tesori collezionati dal proprietario del palazzo. In questo caso, per gli uomini colti e i principi, lo studiolo rappresentava uno strumento di isolamento indispensabile in grado di arginare fuori dalle proprie mura gli orrori del mondo esterno e di fornire uno spazio esclusivo, silenzioso, appositamente pensato per la riflessione e la contemplazione di cose belle. Composto da una stanzetta di pochi metri, riccamente decorata da affreschi e quadri di artisti acclamati, questo era spesso un ambiente segreto, del quale solo pochi fortunati avevano accesso.
Antenato dell’odierno museo – dal greco mouseion, luogo delle muse – questo era una sorta di tempio, un luogo sacro nel quale una volta varcata la soglia si poteva accedere a uno speciale esercizio dello spirito fatto di studio e creazione radicati nella più ascetica solitudine. Secondo la storica dell’arte Adalgisa Lugli – curatrice di una mostra importante dedicata alle Wunderkammer nella 42° Biennale di Venezia del 1986 a tema arte e scienza – è in questo frangente dell’età moderna che i due termini si sovrappongono per definire un habitat speciale “nel quale lo studioso, ripercorrendo metodi già sperimentati in ambito ecclesiastico nella cella monastica, ricrea intorno a sé, sulle quattro pareti, un microcosmo che è la proiezione di un magistero intellettuale, del raccogliersi nello studio e nella meditazione”.
Lo studio, guardando alle sue radici, appare dunque uno spazio dedito alla meraviglia, nel quale si arriva a vivere una sorta di distacco mistico e pressoché totale dalle peripezie del quotidiano e in cui si crea “una nuova religione dell’immagine, costruita sul carico di significati simbolici che l’umanista ha disposto intorno all’oggetto” o meglio, a un insieme variopinto di oggetti: reperti naturali e antichità da scrutare con attenzione, fonti e spunti iconografici al servizio dell’immaginazione artistica e raccolte di opere d’arte decorativa concepite con materiali pregiati, giunti da mondi lontani ed esotici. Nelle moderne Wunderkammer venivano accostate un’infinità di Mirabilia differenti, che gli studiosi e i collezionisti stessi usavano ripartire in quattro sezioni delle proprie personalissime gallerie: naturalia, artificialia, scientifica ed exotica.
Le curiosità e i prodigi del mondo animale e vegetale appartenevano al primo gruppo, al quale seguivano le opere artistiche e i manufatti più originali lavorati e decorati – esplicitamente o meno – dall’uomo, giungendo poi agli strumenti e alle invenzioni scientifiche e geografiche più sofisticate in commercio, sino a quegli oggetti bizzarri, giunti da luoghi lontani, che raccontavano un altrove ancora tutto da esplorare (e depredare).
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